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sabato 6 agosto 2016

Primavere d'agosto

Più numerose le primavere
più lunghi i dì
recano lacrime e lamenti
(Issa 1762-1827)



Direte che sono lamentosa, che le mie primavere numerose mi fanno assomgliare a una ziaPina nostalgica, ma... mi mancano cicche e fazzoletti. 

Non fumo, non fumo più, forse non mi è mai piaciuto visto che il vizio l'ho perso facilmente ma spesso avrei ancora voglia di farmi un tiro in relax. Di quelli affacciati alla finestra, del portacenere a tavola con il caffè, magari al bar, di quelli con il braccio fuori il finestrino abbassato mentre si guida. La sigaretta anni settanta, quella dei genitori a cui guardavo, che affumicava i libri rendendo le coste ingiallite come denti.

E poi mi mancano i fazzoletti. No, non i kleenex. Mi mancano proprio quelli di stoffa, bianchi, quadrati.
Quelli dei nostri padri e dei nostri nonni. Freschi, con le pieghe dello stiro ben visibili e che nel cassetto si ricavavano, ordinati e impilati, un spazio preciso tra mutande e canottiere.  
E mi mancano quei gesti quotidiani rassicuranti: tirarlo fuori dalla tasca scuotendolo, porgerlo a chi piange, pulirci la sedia o il sedile in autobus, metterlo fuori il finestrino quando qualcuno in macchina ha bisogno di un ospedale, tamponarci al volo il sangue dal naso...
Mi mancano fronti imperlate e asciugate, nasi gocciolanti e soffiati, starnuti e risate soffocati con il fazzoletto.


Ricordo oggi un'Italia meno aggressiva. Più pop e più candida. Meno salutisticamente dopata.

(Particolare anni settanta)

giovedì 27 aprile 2017

Amo il vintage


Più numerose le primavere
più lunghi i dì
recano lacrime e lamenti
(Issa 1762-1827)



Direte che sono strana, che le mie primavere sono numerose, che sembro zia Pina nostalgica, accetto tutto ma... mi mancano i fazzoletti. Non i kleenex, no. Mi mancano proprio quelli di stoffa, bianchi, quadrati.
Quelli dei nostri padri e dei nostri nonni. Freschi, con le pieghe dello stiro ben visibili e che nel cassetto si ricavavano, ordinati e impilati, un spazio preciso tra mutande e canottiere.  
E mi mancano quei gesti quotidiani rassicuranti: tirarlo fuori dalla tasca scuotendolo, porgerlo a chi piange, pulirci la sedia o il sedile in autobus, metterlo fuori il finestrino quando qualcuno in macchina ha bisogno di un ospedale, tamponarci al volo il sangue dal naso...
Mi mancano fronti imperlate e asciugate, nasi gocciolanti e soffiati, starnuti e risate soffocati con il fazzoletto.
Forse era un'Italia meno aggressiva. Più pop e più candida. 

(Italia vintage)



mercoledì 19 novembre 2014

Medicine

Continuo a tossire
non c'è nessuno 
che mi batta la schiena
(Santoka  1882-1940)




Non ho grandi certezze, figuriamoci in materia religiosa, ma mi è dispiaciuto immaginare lo smarrimento di qualche malato credente dopo le dichiarazioni del grande scienziato Umberto Veronesi (leggi notizia qui).
Detto questo, oggi una piccola ottima informazione in campo medico. Nelle farmacie di Roma, Milano, Varese e Torino, città che aderiscono al progetto Bancofarmaceutico, sono visibili contenitori che raccolgono medicinali usati e non scaduti, da destinare a chi non ha soldi per acquistarli.
Quando un'iniziativa che parte dal basso è chiara, non degenera in pollai ideologici ma è, e rimane, di pura solidarietà. Tutte le informazioni e un elenco chiaro delle farmacie a cui lasciare i propri farmaci usati e non scaduti QUI.
Tutto qui. Facile facile. Io vado...


(Dalla mia scrivania: malatina ma con netti segni di ripresa)




lunedì 9 giugno 2014

Elogio del fazzoletto

Più numerose le primavere
più lunghi i dì
recano lacrime e lamenti
(Issa 1762-1827)

Accetto tutto! Direte che sono strana, che le mie primavere sono numerose, che sembro zia Pina nostalgica, ma... mi mancano i fazzoletti. Non i kleenex, no. Mi mancano proprio quelli di stoffa, bianchi, quadrati.
Quelli dei nostri padri e dei nostri nonni. Freschi, con le pieghe dello stiro ben visibili e che nel cassetto si ricavavano, ordinati e impilati, un spazio preciso tra mutande e canottiere.  
E mi mancano quei gesti quotidiani rassicuranti: tirarlo fuori dalla tasca scuotendolo, porgerlo a chi piange, pulirci la sedia o il sedile in autobus, metterlo fuori il finestrino quando qualcuno in macchina ha bisogno di un ospedale, tamponarci al volo il sangue dal naso...
Mi mancano fronti imperlate e asciugate, nasi gocciolanti e soffiati, starnuti e risate soffocati con il fazzoletto.
Forse era un'Italia meno aggressiva. Più pop e più candida. 

Buona settimana!

(e vogliamo parlare di "rubabandiera"?)

mercoledì 13 febbraio 2019

Pastori sardi


Nessun aiuto
per quelli come me
vado a a camminare.
(Santōka 1882-1940)


Tra i libri che che mi hanno cambiato la vita, almeno di un po', metterei sicuramente il saggio di Massimo Raveri sull'ascetismo estremo. Leggerlo ha significato orientare diversamente il mio sguardo sulle cose, provare almeno a farlo, cimentarmi. Il senso del testo, l'autore perdonerà questa sintesi lacunosa, è l'individuazione di un aspetto meramente politico nella pratica ascetica. Cosa c'è di più inutile del darsi fuoco, pensavo prima di leggerlo, a cosa serve finire in cenere, esisterà mai un atto più fesso per la società del mummificarsi, e pure da soli (!), o del farsi seppellire vivi in qualche buco, lontano da tutto e da tutti. Mi sbagliavo, per lo studioso queste antiche pratiche di ascetismo erano manifestazioni di dissenso, dissenso allo stato puro che non coglievo. La mente dell'asceta, dice l'orientalista, è capace di inoltrarsi in itinerari mistici attraverso il dominio del corpo, rendendo queste pratiche e i loro effetti (digiuno, automummificazione, darsi fuoco) finalmente visibili. L'asceta si segnala al resto della società facendo di se stesso atto politico. Attraverso il fuoco rende visibile il dissenso, si fa dissenso e, attraverso la dispersione di sé, rinasce come simbolo. 
Ripensavo a questo leggendo dei pastori sardi che versano a litri il loro sacrificio dissipandolo in mezzo alla strada. In quei rivoli bianchi un segnale, l'urlo silenzioso per l'ingiustizia subita.


(colazione buddista)
nota
Massimo Raveri "Il corpo e il paradiso", Marsilio 1992

lunedì 24 febbraio 2014

I visibili

Oh! Senza tetto -
E il mio letto di nuovo
umido e freddo!
(Ryōkan 1758-1831)


(Torno subito. Spero.)
Come ce la fanno? Ma non a sbarcare la giornata o a non sentire troppo freddo o a vivere senza che nessuno rivolga loro un cenno. No. Come ce la fanno in Italia a scampare a chi vuole dargli fuoco o in Giappone a chi li vende come cavie umane per testare la radioattività di Fukushima (vedi il pezzo pag 37 di Silvio Piersanti QUI )!
Già. Come ce la fanno a sopportare romanticismi e razzismi insieme? E anche la beffa del politicamente corretto che li chiama "gli invisibili", ma come ce la fanno?

Saranno parenti stretti di Santoka, Bashō e Ryōkan e degli altri monaci zen che vivevano di elemosine. E' l'unica.

Che ne pensate? Buona settimana -in giro nelle nostre città- a tutti!

domenica 15 settembre 2019

Il mio libro


Spuntano i germogli
al tronco d'un grande albero
poggio l'orecchio
(Hosai 1885-1927)

Questo è l'haiku a cui mi riferisco nel pezzo uscito ieri su "Il Fatto". Lo dedico agli ascoltatori, a chi fa la radio e a chi la sente e a chi sa quello che ha significato per me questo viaggio nelle vite degli altri. Yuppi!
Ed ecco il testo per chi l'avesse perso:

Ho sempre amato la radio. Da bambina puntavo la sveglia alle 5.45 per ascoltare il bollettino del mare dalla mia radietta a forma di scatola che tenevo sotto il cuscino. Immaginavo un capitano vero, con tanto di barba, cappello e timone che, ritto sulla tolda della nave, leggeva agli ascoltatori le sue misteriose informazioni: Libeccio, Forza 8, Stretto di Sicilia, 10 nodi, Mar Libico. In quel limbo tra sogno e realtà bastava solo aspettare sotto le coperte: mamma e papà si sarebbero svegliati, avrei fatto colazione e infilato la cartella, pronta per affrontare una nuova giornata. Magari il famoso libeccio avrebbe soffiato proprio quel giorno, chissà
Dalla voce professionale del bollettino di Radio Rai sono passati decenni e adesso in quella scatola ci lavoro. E così ho finito per amare anche la radio che non va in onda. La lotta al montaggio per un minuto irrinunciabile, il turno di registrazione che salta, le riunioni di redazione, la soddisfazione di una sfumata” giusta o di un taglio” impercettibile, lattesa di un ospite che non arriva e intanto la diretta procede inesorabile verso il precipizio… Amo fare la radio, costruire una scaletta, organizzare gli speciali dai festival o da posti meno fotogenici come una mensa per i poveri, un carcere, un quartiere difficile. 
Un giorno di qualche anno fa chiamò un ascoltatore per partecipare alla diretta. Nulla di nuovo, la radio non è forse per chi lascolta? Cosa c’è di straordinario in una telefonata per rispondere a un quiz? Eppure quel giorno, un giorno come tanti di qualche anno fa, quando lascoltatore fu collegato per andare in onda, dentro di me scattò qualcosa.
Da dove chiama, Michele?” gli fu chiesto. Da un alpeggio, faccio il pastore, rispose. Cera poco tempo, il segnale orario incombeva, il conduttore raccolse la risposta e lo salutò. Da un alpeggio. Un pastore. Un pastore che sente la radio, mi ripetevo, da un alpeggio. Uno che ci telefona e dice: la risposta per me è Autodafé di Canetti, mentre in sottofondo si sentono belati e campanacci. Avrei voluto piantare tutto e andare lì in Piemonte, tra quelle montagne che dun tratto mi sono apparse davanti agli occhi ascoltando il signor Michele. Volevo conoscere la sua storia, capire chi fosse, come fosse arrivato lassù in quellalpeggio e da dove. Ecco, è stato allora che ho scoperto per la prima volta cos’è un ascoltatore, intendo la persona ascoltatore in carne e ossa. Uno che poggia la radio sempre sullo stesso sasso perché solo lì trova la sintonia giusta, come potevo non andare a conoscerlo? E così ho copiato il suo numero di telefono e lho messo da parte, senza sapere ancora cosa farne.
Fino a quel momento per me gli ascoltatori erano una comunità astratta. Grazie a Michele ha cominciato a girarmi in testa unidea diversa: potevo andare io da loro, provare a restituire un corpo allorecchio, farli immaginare, farli sentire, renderli visibili. Conoscerli nelle loro case, tra i loro affetti, raccogliere le loro esperienze di vita, magari proprio davanti agli apparecchi dai quali ci ascoltano ogni giorno. Dopo Michele di Mondovì ho incontrato Stefano, un ex sacerdote ora portiere di uno stabile romano, e Ivo, anche lui romano, un vecchio rugbista amante della rassegna mattutina dei giornali, e Adriano a Castelfranco Veneto, e Armando che insegna scacchi in una scuola media di Castellamare di Stabia, per me un vero samurai, e Valeria, di nuovo a Roma, e poi Angela e Angelo di Andria, e Paola a Brescia, Lisa e Francesco a Levico Terme, e Vinni ad Alghero. Ho provato a forzare la loro ritrosia, a farli parlare. Forse, chissà, ho imparato la loro larte: drizzare le antenne, mettersi in ascolto. E’ stato un lungo viaggio, per certi versi ho compiuto un giro completo: è come se fossi tornata ad ascoltare la mia radietta a forma di scatola.
Continuo a pensare che la radio contribuisca non solo a raccontare il mondo ma anche ad ascoltarlo, nel suo rumore e nei suoi silenzi. In un'antica poesia giapponesequalcuno poggia lorecchio sul tronco di un albero per sentire il germoglio, è unazione così bella. Attiene al rispetto, allattesa, comporta tolleranza, riflessione. E’ una disciplina, e come tale richiede tempi lunghi, meno contratti. Così, anche se intorno tutti strepitano, resiste una comunità invisibile e ricchissima, unarcadia di persone capaci di ascoltare chi sta dicendo qualcosa.
("Ascoltatori. Le vite di chi ama la radio" edizioni add)

martedì 29 aprile 2014

Vip-victims

Le mosche
sopravvissute
mi riconoscono
(Santoka 1882-1940)


Oggi è una bella giornata di sole e ho voglia di distrarmi dalle ultime solite notizie per raccontarvi...

...è una bella serata primaverile, decido di fare due passi a villa Borghese e incrocio, giuro, Flavio Briatore.
Tenuta sportiva e, al seguito, nell'ordine: fitness-Gregoraci, frugoletto, colf filippina d'ordinanza. Mi ripeto che non sono né a Porto Rotondo, né in Kenia, né su "Vanity fair".
Capisco che non si tratta di un sogno perché una donna, un po' rubizza, infagottata di stracci uno sull'altro, alzandosi dal suo cartone e venendomi incontro, mi chiede qualcosa in elemosina.
Non avendo quasi nulla in tasca, le dico a voce alta, anzi altissima, che mi si senta: "Chieda, chieda a lui!"
E cosa fa lei? Lo riconosce e...mi si intimidisce! E non gli chiede neanche mezzo euro!!!
I Briatore profumatissimi, ci superano, lasciandoci alle loro toniche spalle.
La guardo e muovo la mano per dirle: 'Mbè?"
E lei, intimidita, mi guarda con una faccetta del tipo: "Non c'è l'ho fatta...è un vip. È un vero, vero super vip!"

Ma guarda te, le vip-victims si nascondono ovunque!
Beh, l'euro te lo do la prossima volta. E volo via...


(Billionaire, al centro tavolo riservato Dailyhaiku.)

E se a "clochard", "invisibili", "barboni" preferite la parola "visibili" leggete QUI e fatemi sapere.

lunedì 9 gennaio 2017

Freddo da morire

Freddo freddo suolo
arrendo a lui
il mio corpo febbricitante
(Santōka 1882-1940)


Gran parte dei monaci zen che ho frequentato nel mio blog e di cui ho raccontato nel libro viveva di elemosine, oggi verrebbero chiamati barboni, invisibili, dimenticati. Su tutti, e lo sapete, amo Santōka. Anche lui girava a piedi il Giappone, su sandali leggeri e con in testa un cappellone di bambù per ripararsi dalla luce e dalla pioggia, e scaldava mente e corpo con litri di sakè. Sapete anche questo.

Con il clima polare che si è abbattuto sull'Italia dal nord fino alla Puglia - che spala neve alta un paio di metri - alcuni senza tetto, i miei "visibili", sono letteralmente morti di freddo. 
Non posso non pensare a Santōka, agli haiku appuntati sul suo diario, al gelo che gli attanagliava piedi e mani, all'umidità che gli marciva le ossa. I miei monaci zen, ogni tanto, trovavano asilo e un po' di cibo, come sicuramente capita ad alcuni di questi uomini che vediamo in giro qui, tra noi. La morte che si consuma in silenzio ai nostri lati, sotto un cartone di una qualsiasi stazione, sopra una panchina, in totale solitudine - nessun sorriso, lacrima o mano da tenere stretta - è qualcosa che spacca il cuore. Se provi solo a ripeterlo ad alta voce, "morire di freddo", ti si spacca.

Incollo queste righe che, un po' riviste e ampliate, sono anche su Haiku e saké. 

...

Fino al 2010, anno in cui morì, nella piazza dove la dolce vita di Via Veneto precipita verso il basso, piazza Barberini, si agitava un "matto". 
Spernacchiava gli automobilisti fermi al semaforo, urlava cose pazze e slogan contro i politici. Mostrava la lingua a chi lo incrociava a piedi e gli partiva pure qualche sputo.Tutti i giorni lo trovavi lì, i romani se lo ricorderanno di sicuro. Bizzarramente elegante, bretelle colorate, cravatta sopra la felpa, uno stereo a manetta. 
Ballando, perché ballava, faceva vibrare le due antenne che si era incollato sul cappelletto. A volte faceva un inchino pazzo.
Un giorno di tantissimi anni fa prese di punta la nostra macchina, urlando frasi in libertà a mio padre che era alla guida. La mia reazione fu la classica della bambina che si vede in un colpo orfana per colpa di un cattivissimo con antenne. Fatti pochi metri, e rassicurata dal fatto che mio padre era ancora vivo e al volante, riuscii a esclamare d'un fiato "Ma è proprio matto,eh?!" 
Risposta: " E' un tipo simpatico!".
Mi si ribaltò il mondo. Uno così (qui), con quelle antenne, poteva non solo non essere malvagio, ma addirittura simpatico. 

Anni dopo, avrei risposto ai "saluti cantati" di un uomo eternamente sorridente, fisso per anni allo stesso semaforo, che chiedeva l'elemosina ai passanti. Dal taschino della giacca sbucava una forchetta con un pezzetto di pane infilzato. "Per quando non avrò più gnente da magnà!" rispondeva, e tornava a cantare.

Negli anni Novanta ritovavo, quando passavo dalle loro parti, le tracce di una coppia, lui e lei. Due vecchi russi che si erano costruiti una "dacia" di cartoni dalle parti di Via Nazionale e che portavano un colbacco di pelliccia anche d'estate. Occhi chiari e gambe gonfie. In giro, sacchi di roba di tutti i tipi. Cicche in bocca, bottiglie svuotate, pentole e fornelletto.

A Corso Francia so che esiste un "barbone vivaista" che ha reso più belli e lussureggianti i ritagli di verde nel traffico. Agavi ripiantate, palmette, aiuole sghembe, abetini scampati ai salotti, gerani liberati dai vasi. Questo fantasmatico Marcovaldo di Roma Nord io non l'ho mai visto ma so che c'è. Abita in quella che i tassisti chiamano "la villa di cartone". 

Nel bel mezzo della piazza "più piazza" di Roma, ovvero Piazza dei Cinquecento - già il nome dice molto dell'ampiezza - troverete due donne. Amiche, sorelle, madre e figlia? Non si capisce. Fanno da spartitraffico umano in una delle zone più esposte e di passaggio che io conosca, a qualche centinaia di metri dal caos della stazione Termini. La gente intorno non può che andare di fretta, i pullman scaricano i turisti, i motorini sfrecciano. In mezzo alla piazza, un mucchio di coperte da dove sbucano un piede, una faccia o una mano, a seconda della temperatura.