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giovedì 9 giugno 2016

Piuma e farfalla

Ho del riso
dei libri
e persino del tabacco
(Santoka 1882-1940)



Note sparse sulla vecchiaia.
Ho letto un libro bellissimo il cui autore è un bellissimo vecchio.
Hans Magnus Enzesberger, scrivo qui il suo nome altisonante per la prima volta e capisco ancora più chiaramente quanto sarebbe andato lontano il piccolo Magnus, nato a Varsavia nel lontano 1929. 

Lo vidi personalmente per la prima volta nel 2006, mi piace ricostruire le date precisamente, con un cappellino di cotone celeste che gli proteggeva la testa dal caldo, in una piazza assolata di un formicolante festival letterario, e poi nel 2012 dietro le quinte di un altro incontro radiofonico, questa volta a Torino. Sempre gentilissimo e affabile. Una piuma sorridente.

In "Tumulto" racconta circa venti anni di vita attraverso l'esperienza del comunismo sovietico e cubano, gli anni sessanta e settanta del novecento che, questo intellettuale poeta e traduttore tedesco, che la vita ha portato a vivere un po' ovunque, ricostruisce su vecchi appunti casualmente ritrovati oggi. Un'insolita intervista autobiografica, giocata tra psicoanalisi e divertimento, tra un lui vecchio e un lui giovane, in dialogo. Quel lontano Enzesberger, quello giovane e tumultuoso, quello di una vecchia foto in un quaderno, e l'altro, quello novantenne.
Pudiche notazioni private, un sobrio divorzio o la passione amorosa per una donna russa trattati con il medesimo distacco e un filo di ironia. Il soggiorno a L'Havana, la guerra fredda, Kruscev osservato a pranzo, i libri amati, i poeti detestati e gli intellettuali assiduamente frequentati. Conto le lingue che conosce, gli amici e le donne amate. Brevi accenni a qualche delusione, meglio lasciarle laggiù. 

Arrivo all'ultima pagina mentre nell'aria ancora galleggiano le foto di Muhammad Alì. Così aitante, così bello, ape e farfalla in quegli stessi anni giovanili vissuti dallo scrittore. Scorro altre foto pubblicate questa settimana, alcune, più rare, del suo viso di pugile vecchio. Gli zigomi scavati, la testa quasi di teschio, lo sguardo appannato dalla malattia. Le mani tremanti, ferme solo nello scatto fotografico, e che vedo finalmente serrate nel pugno come una volta.
Enzesberger e Alì. 
Sovrappongo due esistenze lontanissime. Penso alla trappola del declino fisico, a tutta la forza che ci vuole per allentarne un po' la morsa e penso che per andare avanti forse bisogna proprio essere, come dice una poesia di Enzesberger, "più leggeri dell'aria".
Come una piuma, un'ape o una farfalla.











   

    

venerdì 28 agosto 2015

Orienti da scoprire

Ho del riso 
dei libri
e persino del tabacco
(Santoka 1882-1940)
  



In questo agosto agli sgoccioli vi propongo l'haiku santokiano che di solito dedico ai libri di cui mi interessa parlarvi.
  
E vi propongo anche un meraviglioso viaggio da fermi, quello di "Cina e altri Orienti", scritto da Giorgio Manganelli e ora uscito per Adelphi con la cura di Salvatore Silvano Nigro.
Mai avrei pensato di innamorarmi di questo libro infilato all'ultimo momento in borsa, scritto da un intellettuale che ha vissuto come "a lato" del suo tempo, in un modo originalmente sghembo e che, finora, avevo trascurato. Ovvio. Sapevo. Sapevo che da molti è consideratissimo e che ha scritto tanto. Ma è andata così. Preciso, va così. Ci devi sbattere, contro un autore, ci devi sbattere da solo e in "quel" momento. Per me va così. 
Forse il cono di luce era tutto su Parise o Calvino, forse era il meno avanguardista del gruppo '63, il meno beffardo tra gli snob. Non so. O semplicemente piace troppo a chi non sopporto. 
Insomma, fino a questo libro, Manganelli non l'avevo ancora mai letto. 
Una volta lo vidi in tv, credo negli anni ottanta, alle prese con un pesce cinese dall'apparenza disgustosa ma di cui tesseva lodi sperticate. Era, fino a questo libro, solo un coriandolo, un pixel nel mio personale blob mentale, un panciuto e occhialuto signore di mezza età che parlava, dottamente divertito, e molto prima di tutti gli altri, di cibo cinese. 

"Cina e altri Orienti", che offre al lettore un diario di viaggio d'autore in posti esotici, Giorgio Manganelli l'aveva scritto pochi anni prima di quel pezzo televisivo che mi colpì. 
Quella mirabile spiegazione sui templi cinesi dove Manganelli chiede al lettore, per comprenderli bene, di immaginare di stare dentro una chiesa dove è possibile trovare la statua di Primo Carnera lì a sinistra, Cadorna a destra, Pico della Mirandola che vigila su Romolo e Remo, un Buddha sorridente vicino a Mandrake e poi lo zar Nicola, e il famoso protettore delle scimmie, Ugo Foscolo. 
E la Malesia, da lui amatissima e definita con la nitidezza dell'inchiostro di china, che leggiamo attraverso alcuni dei suoi suoi culti, dentro i suoi palazzi, fino nei suoi infimi commerci. Pagine innamorate del suo lento e seduttivo vivere. 
Le notazioni sulla pervasività dell'Islam, sull'epopea della famiglia Bhutto, i rumori della giungla tropicale come "vibrafono di chele", "minutaglia di suoni", "un bassocontinuo di microscopiche zampe". Il sesso, le case, gli alberghi, la lotta con l'aria condizionata.


(in viaggio)

Non ho molto altro da aggiungere, né è mia intenzione farlo, so bene quanto siano devoti ed esaustivi molti critici letterari nei suoi confronti. Prendetelo come un "post- it" per un prossimo viaggio da fermi.
Mi piace di più ricordare qui, e con voi, la sensazione di benessere provata nel leggere i suoi Orienti a distanza di quasi quaranta anni da questi nostri Orienti contemporanei, di una Cina che aveva da pochissimo tempo riposto le tute blu e appeso le bici al chiodo e che ora, insieme all'India, è ago della bilancia di tutta una nuova economia.
Le volute di un'intelligenza così acuta e lungimirante quella di Manganelli, un'ironia malinconica che sopravvive a dispetto della biografia.

E durante quest'estate, ora agli sgoccioli, l'ho spesso letto ad alta voce, condividendo con chi mi era accanto, l'unicità di questo suo sguardo che ho incrociato, a sorpresa, solo ora.
Dopo più di vent'anni da quella vecchia puntata di Mixer.

venerdì 27 marzo 2015

Ho dei libri!

Ho del riso
dei libri
e persino del tabacco
(Santoka 1882-1940)



Ve lo assicuro, lettori del Dailyhaiku. Se apprezzate questo blog, lo spirito di questo mio strano calendario poetico, non potete farvi sfuggire questo libro: L'arte di collezionare mosche di Fredrik Sjöberg edito da Iperborea (QUI).
Perché ne sono così sicura? Sentite un po'...

Guardare la realtà attraverso gli occhi di un entomologo è il viaggio che questo inclassificabile libro (saggio - autobiografia - romanzo di formazione) ci propone. Quando poi gli occhi dell'autore sono sfaccettati come quelli dell'oggetto del suo collezionismo scientifico... è puro godimento! E quando la grazia del racconto si alterna a divagazioni colte e ironiche diventa la perfezione assoluta se ci si vuole tuffare in una lettura diversa dalle altre, ronzante e curiosa come una mosca. Un sirfide, per essere precisi.




Sul mondo degli insetti in letteratura, da Virgilio a Kafka fino alla Vispa Teresa, si è detto e scritto in abbondanza. David Cronemberg e David Linch hanno contribuito a rendere mosche e coleotteri fascinosi e conturbanti. Quell'altro genio di Jan Fabre le ha sadicamente incollate su meravigliosi rosoni iridescenti. E Rimskij-Korsakov con il suo calabrone in musica, fino all'inarrivabile tolleranza dei nostri poeti zen, miti osservatori di pulci, farfalle, pidocchi, grilli e mosche.
E allora cosa rende questo libro speciale? La curiosità "moschina" del suo autore e quella generata nel lettore. L'originale capacità di osservarsi come farebbe un entomologo, appunto, nell'affannato tentativo di aggiungere un tassello in più a una ricerca che sa di infinito. Sapete quante specie di insetti esistono? Milioni e milioni. Di queste centinaia di migliaia appartengono all'ordine dei ditteri, le mosche appunto e solo in Svezia, punto di osservazione di Sjöberg, ci sono 4424 tipi di mosche. Tra cui, finalmente, i sirfidi!
Ecco che l'autore, circoscrivendo sempre di più il suo campo di osservazione, limitandone via via i confini, arriva a setacciare, in modo proficuo per la sua ricerca, un minuscolo isolotto svedese. Sarà il suo giardino a diventare teatro di una super trappola per sirfidi. La trappola di Malaise, avventuroso, e misconosciuto ai più, eroe assoluto del libro.

Lo sguardo, il nostro, diventa a 360 gradi su entomologia, biologia e letteratura. Sjöberg ci dice che la ricerca è possibile anche se il punto di vista è ristretto e il porsi dei limiti, analizzandosi e circoscrivendo passioni e ossessioni, può essere un metodo. Un metodo per procedere nella conoscenza scientifica e nell'esistenza. 
Ora scusatemi, la pianto qui. Volo, è il caso di dirlo, a cercare il racconto di D.H. Lawrence che Fredrik Sjöberg cita a un certo punto, ma non prima di avergli dedicato questo piccolo haiku del monaco zen Shiki che sull'osservare il mondo, da un punto di osservazione angusto, ne sapeva eccome!
Eccolo:

La mosca in autunno
tutti gli acchiappamosche
sono rotti
(Shiki 1867-1902)

mercoledì 11 marzo 2015

Paolo Terni

Fiori bianchi
di montagna
sul tavolo
(Santoka 1882-1940)



"Un consiglio? Meglio una casa in affitto. E' inutile comprare, faticoso e dispendioso. Io sono stato sempre in affitto e ho abitato bellissime case da cui potevo andarmene quando volevo... "
Questo consiglio immobiliare - e di vita! - che non ho mai dimenticato, me lo diede Paolo Terni, conduttore e amico di Radio3 che, una dozzina di anni fa, raccoglieva pazientemente le mie preoccupazioni per alcuni cambiamenti che avrei dovuto affrontare. 
Mi piace ricordarlo affacciato a quel terrazzo di una bella casa romana, mentre si godeva una vista meravigliosa, e una buona cena, dopo aver presentato un libro di qualcuno in una libreria. Non ricordo più bene dove fossi, chi c'era, di chi fosse il libro... 

Terni lascia la sua casa di Radio3 e la lascia molto più vuota. 

Paolo Terni era un pezzo molto importante di Radio3, di quel grande Terzo Canale che lui ancora rappresentava ai nostri occhi di "arrivati dopo", e ci sembrava che uno come lui non potesse mancare mai.
Invece, qui in Via Asiago, ci mancheranno la sua voce e la sua competenza, mancheranno a noi che eravamo anche suoi ascoltatori. Il suo eloquio elegante e ricercato che aleggia ancora nei nostri corridoi mentre siamo alle prese con vecchie registrazioni che lo ricordino.

(R.I.P)








  

lunedì 2 marzo 2015

Libri

Mia sorella minore
mi legge un racconto di battaglia
lunga è la notte
(Shiki 1867-1902)


Questa poi! I "nativi digitali", per quei pochi che non lo sapessero così si definiscono coloro che sono nati e cresciuti con il computer, ovvero i nostri figli & nipoti, preferiscono i libri di carta. 
Sì. Avete capito bene. I libri, quelli con le pagine. (Leggi notizia QUI).
Lo dice una ricerca americana frutto di alcune testimonianze sul campo, anzi dal campus. Per tutte, riporto per voi queste due dichiarazioni sulle ragioni della preferenza del cartaceo: "ha un odore che mi piace", "non emette suoni" e "non si scarica".

E poveri noi nati prima del pc, ovvero i cosiddetti "immigrati digitali", che lottiamo con google map e cerchiamo di capire il wifi nella sua essenza ontologica, e che ci eravamo appena abituati all'idea che il libro di carta poteva anche essere sostituito dal famoso "supporto"!


(Immigrati digitali parlano del futuro del libro ad altri immigrati digitali. Nell'ordine Sinibaldi, Cirri, Dailyhaiku e Laterza. E i nativi digitali? Assenti)

E, cliccando QUI, la storia del coltissimo Shiki, autore dello haiku di oggi.










martedì 13 gennaio 2015

Leggendo haiku

Aspettando il prossimo tuono,
incontro per caso
bellissimi occhi
(Saitō Sanki 1900-1962)



In questi giorni di tuoni e tempesta ho scelto di leggere "Il grande libro degli haiku", appena uscito per Elliot, riedizione di quello Castelvecchi che nel 2005 aveva una copertina blu. Il volume, dalla stazza non esattamente tascabile, è un'antologia che mi sento di consigliare a chi, magari anche attraverso il mio blog, inizia ad apprezzare il grande mondo degli haiku.
L'introduzione, semplice e precisa, è della curatrice Irene Starace e offre un excursus veloce nella letteratura giapponese. Varia la scelta dei poeti e dei componimenti, le note sono puntuali e facilmente raggiungibili dal lettore. Per ogni haiku è dedicata un'intera pagina, scelta che all'inizio mi sembrava, lo ammetto, un po' troppo stilosa, ma che invece rende ben visibile quel senso di sospensione intrinseco nel componimento stesso. In effetti, solo in uno spazio più ampio può trovare respiro la grazia grafica degli ideogrammi e la loro trascrizione anche in italiano lascia intuire quel ritmo interno al verso, inafferrabile se non si conosce il giapponese. 






Insomma, un bel libro da consultare dove, insieme ai più famosi Bashō e Issa, trovano posto vari poeti contemporanei poco conosciuti esponenti di un'arte antica sempre capace - come già diceva Roland Barthes in un suo saggio meraviglioso - di rendere, proprio come una fotografia, la realtà a cui cosmicamente si riferiscono.
Alla domanda se possano esistere ancora poeti haijin, come lo furono Issa o Bashō, ai nostri giorni, la risposta è immediata e positiva se si leggono Kaneko Tōta o Kato Shusōn.
Gli haiku hanno irretito Jack Kerouac e Andrea Zanzotto, ne parlerò in un prossimo post, e continuano ad affascinare migliaia di persone in tutto il mondo che si cimentano nella loro struttura e costruzione, ne traggono ispirazione per musica, fotografia, video arte.

Di questi cristalli perfetti di tre versi, io catturo, col mio specchietto, uno dei tanti riflessi che mi colpiscono e lo dirigo sui vostri "bellissimi occhi" e voi, a vostra volta, lo riflettete in giro o di nuovo verso di me. 
Ecco cosa significa per me l'esperienza del Dailyhaiku.







     

 

venerdì 19 dicembre 2014

Ho dei libri!

Ho del riso
dei libri
persino del tabacco
(Santoka 1882-1940)





Consueto haiku-sigla santokiano per il consueto consiglio di lettura. 




Che oggi dedico non solo a chi ama la fotografia e la sua storia, ma anche a chi ama il proprio lavoro e lo fa in modo serio, sobrio e appassionato.
Il primo fra tutti a parlarmi di Mario Dondero, sempre illuminandosi e tessendone le lodi di umanità e simpatia, è stato lo scrittore Angelo Ferracuti, uomo colto e defilato, suo amico di vecchia data. In seguito, per il mio lavoro mi è capitato spesso di incontrare personalmente questo grande maestro della fotografia e, come succede sempre e solo con i grandi, anche Dondero mi ha dato quella bella e calda sensazione di totale semplicità. Passare tra le cose e nella storia con semplicità. E anche in modo sorridente.
Una volta entrai in redazione e, in mezzo al caos dei libri, delle carte e soprattutto dei colleghi in subbuglio, l'ho visto che si aggirava sorridente con la sua Leica M3 appesa al collo e in funzione.  

Questo saggio rappresenta prima di tutto il prezioso tentativo, riuscito perfettamente con l'ausilio dei "devoti" raccordi di Emanuele Giordana, di mettere ordine nell'archivio mentale di un grande dei nostri tempi.  
Lo "scatto umano" (che bel titolo!) di Mario Dondero racconta la grande stagione dei fotoreporter adombrando un temperamento che sembra forte e morbido allo stesso tempo. Radicale e mai snob, dentro e fuori le cose al tempo stesso. Una incredibile biografia che va dal sedicenne partigiano all'Afghanistan degli anni ottanta attraversando le capitali culturali di un' Europa in costruzione e raccontando incontri unici come con Doisneau, Robert Capa e Gerda Taro, le guerre e le lotte sindacali . 
Senza particolari ossessioni tecniche, quella di Dondero ci appare come passione pura per gli esseri umani. 
Reali e importanti "soggetti" da fotografare.




(Mario Dondero. In una MIA foto!)



  


     






venerdì 12 dicembre 2014

Ho dei libri!

Ho del riso
dei libri
persino del tabacco
(Santoka 1882-1940)




Ricordate lo haiku-sigla di Santoka (QUI) che uso quando desidero condividere una lettura speciale con voi?
Eccomi qui per consigliarvi questo "C'eravamo tanto amati" di Elena del Drago, edito da Electa, che inanella, una dopo l'altra, alcune grandi storie d'amore di famosissime coppie dell'arte del novecento. 
Prima di tutto mi piace il passo stilistico, che definerei "gattesco", scelto dall'autrice. 
Come come se si muovesse in mezzo a cristalli preziosi, del Drago ci indica questo o quell'incontro, ci fa notare similitudini, reciproche influenze, date cruciali e, sempre morbidamente, suggerisce di allargare lo sguardo alla società in cui sbocciano gli amori che racconta
Questo parlare sottovoce fa da controcanto perfetto al tono deciso degli accadimenti raccontati nel libro, alle follie che l'amore fa fare (a tutti!), all'elettricità che scatena un incontro, alla voglia di vita che ne deriva, ai colori saturi della passione.  
Ogni capitolo, dedicato a grandi coppie di artisti che si sono incontrati e che hanno scelto di camminare fianco a fianco per un pezzo di strada come Rodin/Claudel, Rauschenberg/Johns, Abramovic/Ulay, Casorati/Maugham e tante altre, illumina aspetti inediti, curiosi e romantici, che rendono queste vite uniche e, allo stesso tempo, caratterizzate da sentimenti alla portata di tutti noi.




Ovviamente nessuna nota frou-frou per questi incontri. La biografia è un genere strano, difficile e rischioso, con un'inclinazione voyeurista che mi rende diffidente in molti casi, ma qui siamo altrove. Per capirci, questo libro si può porre nello stesso scaffale dove collochiamo il magnifico Lytton Strachey quando ci descrive la sua formidabile galleria di "eminenti vittoriani".
Queste grandi storie d'amore che in alcuni casi, ripeto, rispecchiano fragilità e desideri anche di noi miseri mortali innamorati, "fanno" la storia dell'arte, la completano e la arricchiscono. E, offrendo al lettore un elenco di coppie di artisti famosissimi - veri mostri sacri e autori di passaggi epocali nella storia dell'arte - l'autrice sembra, con la sua colta semplicità, dirci: attenzione che "quel" fiore, "quel" tono di blu, "quella" performance, "quel" paesaggio, non sarebbe potuto esistere senza "quell'incontro".

In "C'eravamo tanto amati" l'amore trionfa sempre. 
Anche quando si interrompe, ci si tradisce, ci si stanca l'uno dell'altro, trionfa nell'energia creativa che ha comunque generato. Per quel pezzo di strada, vissero tutti felici e contenti.
E noi con loro.





martedì 9 dicembre 2014

Il gioco serio del go

La scacchiera del go rovesciata
dalla mia amante - fuori
il canto del piviere
(Ikenischi Gonsui 1650-1722)



Tornando a casa dalla Fiera Più Libri Più Liberi di Roma riflettevo su quanto, in un paese di lettori-di-figure come il nostro, il discorso sull'editoria grande e piccola sia lungo, arzigogolato e tendenzioso, e quindi da sintetizzare, per quanto mi riguarda, con un generale, e pilatesco, auspicio di "lunga vita alle piccole case editrici"!

È anche vero però che orientarsi nel macrocosmo dei piccoli editori c'è da star male (folle manualistica, nauseabondi libri di ricette, esoterismi da scaffale, guide cittadine agli angoli nascosti che sarebbe meglio che lo restassero, biografie scritte da ex-dipendenti Rai o ancora peggio da primari in disarmo, floricultura da terrazzino, narrativa vegana che istiga al bisteccone, plaquette poetiche da suicidio...) ma, se ci si prende un saridon con mezzo bicchiere d'acqua e si continua a cercare, si possono scovare cose belle che rispondono a quello che dovrebbero avere le piccole edizioni da statuto: un catalogo originale.

Tiro fuori dal mio borsone il volumetto bianco appena uscito edito da Quodlibet "Breve trattato sulla sottile arte del go" firmato da tre giocatori pazzi come George Perec, Pierre Lusson, Jacques Roubaud e tradotto da Martina Cardelli.
Il gioco del go, esperienza estetica e strumento per vedere le cose, che i giapponesi consideravano una delle difficilissime strade per la saggezza.
Dopo l'elegante liturgia raccontata da Kawabata ne "Il maestro di go", mi divertirò a leggere i sofisticati appunti dello strano terzetto che qui sembra alla disperata ricerca di una scacchiera-griglia che contenga tutte le loro divagazioni e i sofisticati giochi linguistici.
Inizio a leggere, contenta di scoprire mondi e di metterli in cortocircuito nella mia testa, con ancora il piacere di avere passato un pomeriggio di lavoro ricco di cose e di incontri con tanti amici, tra cui i Tre Allegri Ragazzi Morti e, soprattutto, aver potuto salutare qualche scrittore ed editore serio. Come quelli che piacciono a me.

(Incontri seri!



(Incontri seri!)



venerdì 21 novembre 2014

Ho dei libri!

Ho del riso
dei libri 
e persino del tabacco.
(Santoka 1882-1940)





Da oggi in poi, quando vorrò parlarvi di qualche libro che mi passa tra le mani e che mi colpisce, userò questo haiku come come sigla del post. Del resto, sono o no una... radiofonica?

Ho scoperto il "mistico drop-out" Taneda Santoka traducendolo, haiku dopo haiku, dall'inglese, perdendo ovviamente le assonanze e il ritmo giapponese dei tre ku, ma cercando di recuperare almeno lo "spirito" di questo maestro zen.
Sono risalita al suo diario, edito da una piccola casa editrice americana, e ho ricostruito, per chi mi segue, l'esistenza del monaco "in cammino" dagli occhiali tondi. Grande esperto di fallimenti umani (riuscì a far implodere in un colpo gli affari della piccola distilleria ereditata dal padre e il matrimonio) e della fatica della solitudine, l'alcolista pieno di rimorsi e il grande amante degli onsen e dei grilli (digita Santoka nell'archivio). 
E così, ho imparato a riconoscere e ad ammirare la sua fermezza - tratto insospettabile vista la sua storia - e la sua finezza letteraria, pur mediata dalla traduzione inglese. 
I piccoli mondi descritti in modo cristallino e il sentirsi così poco zen, così inadeguato...

Insomma, questa novità dello "haiku-sigla" per dirvi che oggi vi parlerò di un romanzo appena uscito. Anzi, NON vi parlerò di un romanzo appena uscito perchè non l'ho ancora letto. Ma a certi autori va la fiducia a priori. 
Vi saluto, passerò il mio weekend in ottima compagnia! Ho del riso, dei libri e persino del tabacco!


(Philip Roth, Santoka e... la radio, cliccando QUI!)














venerdì 7 novembre 2014

Pioggia e gatti blu

Sta piovendo -
un gatto infangato
sonnecchia sul sutra
(Natsume Sōseki 1867-1916)






Piove a dirotto anche nello haiku di oggi.
Con tre versi appaiono mondi: la stagione, qui attraverso il kigo della pioggia, il calore di un momento buffo che volutamente stride con la solennità del sutra. Il ribaltamento di senso, dato dal kireji finale.
Natsume Sōseki è stato lo scrittore che, con "Guanciale d'erba" edito da Neri Pozza, tempo fa mi ha aperto la porta sulla letteratura giapponese. Uscito nel 1906, anticipando di una dozzina di anni "La passeggiata" di Robert Walser, anche il passeggiatore di Sōseki ci guida lungo un cammino di conoscenza e introspezione popolato da incontri casuali e formativi. Ragionamento sul senso dell'arte, è anche una metafora della conoscenza in un'atmosfera di sospensione atemporale puramente giapponese.


Andando in giro in motorino per Roma, e sempre proposito di inizi, notandola tappezzata di manifesti che pubblicizzano il film "Doraemon", non posso non individuare proprio in questo cartone il mio primissimo e inconsapevole accesso al Giappone.
Sì, avete capito bene. Andavo pazza per Doraemon!
E' stato proprio il gatto spaziale con la sacca magica a introdurmi nelle case e nelle abitudini quotidiane giapponesi, ad abituarmi a quei "suoni" strani. A insegnarmi il significato di parole come bento, dorayaki, tatami e futon. Pupazzi che si sedevano a tavola senza le sedie, indossavano kimono e mi raccontavano storie di amore per la natura e per gli altri, valori semplici, e semplificati dalla sceneggiatura per ragazzini, come l'integrità morale, il coraggio e il rispetto. Ambienti domestici dove si intravedeva il piccolo altare casalingo, che ora so essere il tokonoma, dove i fiori erano disposti geometricamente e il tè servito con tutte le cure.
Mentre sgranocchiavo serafica la merenda davanti alla televisione, sui giornali degli anni ottanta sociologi, pedagoghi e psicologi si arrovellavano sulla potenziale nocività dei cartoni giapponesi in tv. Alabarde spaziali, accigliati mazinga, orfanelle dalle lacrime luccicanti, gatti spaziali eccetera eccetera, in effetti avevano spazzato via i vecchi Disney.

In rete su Doraemon si trova di tutto. Tra le tante notizie: un lottatore di sumo, che per i giapponesi è quello che il calcio significa per noi se escludiamo feriti e teppismo, ha scelto come soprannome Doraemon. O che il termine doraemon è entrato comunemente a significare qualcosa capace di soddisfare tutti i desideri. O ancora che il cartone ha finito di esistere con la morte del suo ideatore (ma questo film, allora?) e che il gatto blu è una sorta di santo patrono degli otaku, ovvero degli appassionati ossessivi di manga, anime e cultura pop giapponese. 

In un certo senso, il Giappone produce, serializza, "diventa" i suoi personaggi. Se hai la possibilità di attraversare le strade di Tokyo, o di città meno sfavillanti, non puoi non notare anche un aspetto ludico. La moda, i gesti, i cartelli, gli avvisi in giro, i sorrisi dolci o trepidanti. I bambini in divisa, le ragazze con le minigonne, il gusto en travesti: tutto un mondo in versione gadgets.  Lo stesso "spegnersi" sulla metropolitana dopo una giornata lunga di lavoro per "accendersi" alla fermata giusta, sembra uscito da una storia manga. Come la fissa per il karaoke o il pachinko. Come il parco dove convivono un antico tempio dorato e steccati di plastica che imita il legno. Dove i grandi magazzini prevedono tutte, ma proprio tutte, le esigenze dei clienti, i water sono musicali e fasulle stelle cadenti, proiettate su un mega schermo, permettono comunque di esprimere un vero desiderio. 

Ripongo al volo l'iphone con cui ho fatto la foto nella mia "tasca spaziale", rimetto in moto e canticchio la sigla di Doraemon pensando a Sōseki, nonostante la pioggia che batte sul parabrezza.