mercoledì 13 settembre 2017

Leggendo e vivendo


Nel loro profondo appartamento
Nessuna oscenità può insinuarsi
Indisturbata questa dimora
Da chiunque tranne Dio -


Sono scossa dalla notizia del piccolo Alessio, di soli sette anni, che il fato ha voluto assistesse alla morte dei suoi genitori e del fratellino, tutti scivolati nella bocca di un cratere vulcanico a Pozzuoli. Inquadro mentalmente la sua immagine, dura un istante dolorosissimo, mentre la radio trasmette la testimonianza del passante accorso, qualcuno che lo ha raccolto e ne ha ascoltato il racconto abbacinato. La favola dell'orco cattivo che galleggia ancora nella sua testa piccola, conoscere la morte a sette anni (notizia QUI).
O quel nonno che si è tuffato nel fango per salvare i suoi cari a Livorno, per loro una stessa fine lancinante, l'epilogo della medesima favola nera.
Vite perse, shock. Fine. The end.

Sto leggendo "Lincoln nel Bardo" e lo faccio nella mia vita chiara, solare, quella alla luce del giorno, quella lavorativa, quella che lotta per allontanare i fumi delle angosce. (Di George Saunders ricordavo un elogio alla gentilezza che mi colpì tanto e non escludo che mi abbia fatto cambiare un po'. No, non lo escludo affatto)
Lo dico senza preamboli, è un romanzo che parla di morte. Quel momento ultimo tra lì e qui che l'autore letteralmente fa parlare con la voce di chi lo sta vivendo (è il caso di dirlo "vivendo"?). Una collana di dolcissime testimonianze per un romanzo che non è certo romanzo nella forma classica e il cui autore cerca "qualcosa", il mio genere preferito di autori e di storie. 
Un romanzo che sembra la vita stessa che è capace di riservare agli esseri umani un andamento poco prevedibile o un epilogo incredibile meta delle tante strade percorse che, fatalmente, proprio "lì" avrebbero condotto.

  







martedì 12 settembre 2017

Al premio letterario


Io lo rividi allora entro quel gioco
nella sua nuova città. E mi sentivo un cane
che non potea parlare
(Sandro Penna)




(in ombra)


lunedì 4 settembre 2017

Doppio sogno


La stanza in cui entrai era il sogno di questa stanza.
Certo tutti quei piedi sul sofà erano miei.
Il ritratto ovale
di un cane ero io in piú tenera età.
Qualcosa riluce, qualcosa viene azzittito.
A pranzo mangiavamo pastasciutta tutti i giorni
tranne la domenica, quando una quaglia veniva indotta
a esserci servita. Perché ti dico questo?
Nemmeno sei qui.
("Questa stanza" di John Ashbery)


Ho sognato il sogno di una vita parallela per i ragazzi di Rimini, alcuni erano minorenni, sì, quegli stessi ragazzi che hanno compiuto gli stupri.
La loro vita iniziava uguale uguale, laggiù, identico il viaggio da lì a qui, stesse le angosce e le privazioni, molle per la partenza di chiunque. Uguale anche l'approdo. 
Ma poi ho continuato, sognando per loro una vita parallela. La stanza in cui entrai era il sogno di questa stanza.
Avrebbero imparato l'italiano, ottenuto la licenza media e poi un lavoro. Meccanico uno, cuoco l'altro, nel sogno il più grande continuava gli studi, sarebbe andato all'università e di pasticche da spacciare, o da calarsi, neanche mezza. Ecco, sarebbe diventato un medico bravissimo, capace di capire. Di aiutare gli altri.
I tre avrebbero vissuto la seconda vita dalla prima, e si sarebbero fidanzati, avrebbero avuto dei figli dalla ragazza che gli diceva ti amo su quella stessa spiaggia lontana, quella con il mare amico che assomigliava alla Plage de Nation di Rabat, quella con gli eucalipti in riva e i tramonti lunghi.
Un sogno, una vita parallela a quella seconda possibilità, un'esistenza lasciata alle spalle in Congo o in Marocco, un sogno che si realizza. 
Sarebbe stato bellissimo.
Perché ti dico questo?
Nemmeno sei qui.


(Stanza da sogno)

(in morte di John Ashbery)


venerdì 1 settembre 2017

DailyHaiku - Fine agosto

A fine agosto, dopo sette giorni
di pioggia fitta e sole, erano mature
le more. Una soltanto, prima, un grumo
lucido e viola in mezzo ad altre rosse,
verdi, dure come nodi. L'hai mangiata,
la polpa dolce come vino spesso:
aveva dentro il sangue dell'estate,
lasciava macchie sulla lingua e brama
di raccolta. E dopo che le rosse
anch'esse s'inzupparono d'inchiostro,
quella voracità ci spinse, armati
di vasi, di barattoli e lattine,
tra le spine dei rovi, in mezzo all'erba
bagnata che sbiancava gli scarponi.
Arrancando intorno a campi di patate,
fieno e granturco raccogliemmo
fino a riempire i nostri recipienti,
finché il fondo tintinnante fu coperto
di more verdi, mentre in cima grandi
bolle nere brillavano, e sembrava
un piatto d'occhi. Le mani eran pepate
di spine di rovo, i nostri palmi
appiccicosi come Barbablù.

Ammucchiammo le bacche nella stalla.
Ma quando la vasca fu riempita
trovammo che un fungo grigio-topo,
peloso, si pasceva del tesoro.
Anche il succo puzzava. Il frutto, tolto
dall'arbusto aveva fermentato,
la polpa dolce s'era inacidita.
Volevo piangere. Non era giusto
che tutto quel bel mucchio fosse marcio.
Ho poi sperato, anno dopo anno,
che resistesse, e, lo sapevo, invano.
("La raccolta delle more" di Seamus Heaney)


La fine di agosto, anno dopo anno, la mia piccola ferita.


(Cambio di stagione)





giovedì 31 agosto 2017

Il falco nella pioggia


Affogo nel tambureggiante campo, estraggo
un calcagno dopo l’altro dall’ingorda bocca della terra,
dal fango che mi afferra ogni passo alla caviglia
con la tenacia della fossa, ma il falco

libra in alto senza sforzo l’occhio fermo.
Le sue ali tengono il creato in una imponderabile quiete,
ferme come un’allucinazione nell’aria che scorre.
Mentre il vento percuote a morte queste ostinate siepi,

mi prende gli occhi, mi toglie il fiato, mi afferra il cuore,
e la pioggia mi incide la testa fino all’osso, il falco regge
il punto adamantino della volontà che guida come un nord
la resistenza del naufrago: ed io,

stordito, ghermito boccone di sangue che conta l’ultimo istante
nelle fauci della terra, tendo al supremo
fulcro della violenza dove posa il falco.
Che forse incontra quand’è l’ora la bufera

proveniente dalla parte sbagliata, sopporta, scagliato a testa in giù,
che l’aria gli cada dagli occhi, le pesanti contee gli crollino addosso,
l’orizzonte lo intrappoli; e, sfracellato quell’occhio tondo
d’angelo, il sangue del cuore si mischi alla mota
("Il falco nella pioggia" di Ted Hughes)


Non sembra la cronaca di un viaggio da continente a continente, non vi appare come la fuga di un migrante verso una possibile salvezza? E che poi, finalmente giunto, tra noi, finirà per dibattersi nella medesima angoscia? 
All'ombra di quei palazzoni del Tiburtino III a Roma solo ieri pomeriggio o tra gli scorci pittoreschi di Treviso, in un campo di pomodori, in una trasmissione televisiva di una retequattro qualsiasi o sulla spiaggia tra gli ombrelloni e il mare, nel tambureggiante campo, estraggo un calcagno dopo l’altro dall’ingorda bocca della terra, dal fango che mi afferra ogni passo alla caviglia con la tenacia della fossa.
Ovunque la sua fuga continua, e con lei cresce la nostra vergogna.


(Occidente al tramonto)

martedì 29 agosto 2017

Gli smagnetici


Come fermare
l'acqua che scorre?
Sapore d'alghe.
(Takarai Kikaku 1661-1707)


Poi ci sono le persone smagnetiche che sono dotate, sì, di indubbio smagnetismo.
La loro caratteristica principale? La verbosità.
Antidoto? Un haiku da recitare mentalmente mentre parlano e parlano e parlano come acqua che scorre.  
Loro, gli smagnetici, non si accorgeranno di nulla, presi come sono dalla loro stessa calamita che punta sempre verso se stessi, mentre tu, con il tuo piccolo mantra poetico, potrai finalmente sentirti spinto in un altrove possibile. Lontano. Libero.
Consiglio? Impara un haiku a memoria. 
Mi ringrazierai.


(Magnetici)





sabato 26 agosto 2017

L'onda


La notte lava la mente.

Poco dopo si è qui come sai bene,
file d'anime lungo la cornice,
chi pronto al balzo, chi quasi in catene.

Qualcuno sulla pagina del mare
traccia un segno di vita, figge un punto.
Raramente qualche gabbiano appare.
("La notte lava la mente" di Mario Luzi)



Quando leggo dell'ennesimo episodio razzista o di una nuova ordinanza contro "i neri", quando ascolto frasi idiote sulla razza, "casa mia" e "casa loro", quando sento discettare di improbabili differenze tra migranti economici e migranti politici e su quello che noi dobbiamo fare e su quello che loro eccetera, quando si danno numeri a caso, le ong diventano la causa del male insomma quando l'idrante della sicurezza travolge tutto, come è successo a Piazza Indipendenza a Roma, penso al recente sbarco sulla spiaggia di Cadice. E mi riprendo pensando a quell'onda.
In che senso, vi chiederete, ti riprendi, che sulle spiagge di Cadice, in Spagna, tra gli ignari turisti che prendevano il sole, sulla riva ne sono sbarcati in circa cento solo una settimana fa, in che senso ti riprendi? E che correvano tra la gente in costume a balzi veloci nonostante fossero stravolti per la traversata, il gommone sulla riva come una balena spiaggiata, tutta l'adrenalina addosso per non farsi beccare, in che senso? 
Pelli lucide che creano l'onda nera che si frange sulla riva (video QUI).

L'ondata dei migranti vincerà comunque, chi pronto al balzo, chi quasi in catene. 

Vince per la forza vitale che porta, gambe muscolose capaci di scavalcare il mare, vita che cerca vita. I bambini piangono ma non hanno paura e vanno avanti, le giovani donne sotto turbanti colorati vanno veloci, i grembi fertili. Giovani uomini, ragazzi belli, fieri, lo sguardo lontano procedono a grandi falcate.  
Sbarcano sulle nostre coste gli atleti della sopravvivenza, i campioni mondiali di voglia di vivere.
Ad attenderli ci siamo noi flaccidi e vecchi e pieni di pregiudizi. Ci spalmiamo le creme sulle panze rosicando d'invidia mentre quest'onda splendente di giovinezza ha deciso per tutti.
E sì che mi riprendo!


(Aspettando l'onda)