Ho del riso
dei libri
e persino del tabacco
(Santoka 1882-1940)
Gentile Daniel Pennac,
mentre veniva intervistato a Fahrenheit, il programma che
curo in onda su Radio3, la ascoltavo e la osservavo. Sembrava così a suo agio,
con la sua aria lieve e divertita e acuti occhi da gatto dietro lenti
simpatiche. Sembrava uno dei suoi personaggi, sembravamo tutti a Belleville. Il
pubblico, i lettori, adorano questa gioia di vivere piccola che lei riesce a trasmettere anche solo ascoltando
il suo interlocutore, mostrando interesse per quello che dice.
Le scrivo così in due righe - troppe persone, troppo caos ai
festival letterari e la diretta mi pone obblighi di devozione totale ai tempi
della scaletta - quel poco che non sono riuscita a chiederle a voce.
Potrebbe aggiornare il suo decalogo, quello per diventare un
buon lettore? Almeno i primi tre punti, potrebbe ripensarli?
Nel saggio "Come un romanzo", ormai una ventina di anni fa, quindi in un'altra era geologica, indirizzava il suo lettore ad
amare i libri, sintetizzo, assolvendolo da sforzi inutili (clicca QUI).
Ma non mi sembra più il tempo, gentile Pennac.
La lezione l'abbiamo capita in fretta, siamo diventati tutti
capaci, troppo capaci, di autoassoluzioni (anche in altri campi, francamente).
Il suo decalogo, prima di tutto, prevedeva un lettore. Ora dove
sta quel tipo di lettore? Si rivolgeva a un lettore potenziale ma possibile, e
non un lettore realmente impossibile come quelli che vedo in giro. Nella società che lei conosce e abita, come
tutti noi, quella dell'autoassoluzione spinta, dove si surfa sulla letteratura,
dove nelle scuola italiane fanno leggere i "Malavoglia" e ancora non
hanno capito che quasi nessuno da
Verga poi è passato a un altro libro (forse questo destino era scritto
già nel titolo?), quella dove la
letteratura si fa su e con FB, dove sui comodini non vedo libri ma smartphone,
la narrazione è saccheggiata dai giornalisti, lo storytelling nessuno sa bene
cosa sia e molti insegnanti - va bene, guadagnano poco eccetera - ma, inesorabili, tirano sempre fuori "Il piccolo Principe" come loro libro
di formazione, ecco, temo di capire, che in mezzo a tutto questo, il suo antico
interlocutore, che alla fine leggeva, non c'è più. Si è estinto.
E continua a perpetrarsi, ovviamente non per sua
responsabilità gentile Pennac, il fraintendimento che, se Kafka mi annoia, per
esempio, il problema è di Kafka che è troppo grigio, non mio. E, a proposito del pallosissimo processo di Kafka, vincono l'evasione e l'autoassoluzione. Se Sebald è
sedativo, avrebbe dovuto lui essere più...seduttivo (e poi tutte quelle sue
fotine sbiadite!) e non devo essere certo io a capire il suo universo. Io, io,
io. Che le foto le faccio pure meglio!
Se Roth,
Munro, Ernaux dicono sempre la stessa cosa, non è certo colpa mia che non li
leggo, ma loro che si ripetono. E poi: se un libro è lungo non lo guardo proprio, se parla di morte,
perché intristirmi che al
telegiornale dicono sempre queste cose e sono pure aggiornati e a me poi non me
ne frega molto. Perché farsi le domande dei grandi se io, io, so già tutto?
Insomma, gentile Pennac, trovo che si sia spostata, e di
peso, la questione. Un po' troppo. L'assolversi, essere sempre così indulgenti con se stessi, non capire che
sono "io" il problema e non Dostoevskij, avrebbe bisogno di un
aggiornamento dei suoi.
Con un po' di sano senso di colpa credo che, oggi, saremmo lettori
migliori.
Susanna
|
(Mantova come Belleville) |