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lunedì 21 ottobre 2019

Il giorno di Kerouac

Eccomi qua
due del pomeriggio
Che giorno è oggi? 
(Jack Kerouac)

Che giorno è, chiede Jack Kerouac in questo suo haiku.
Nell'Olimpo degli scrittori Kerouac è sempre quello un po' piacione, in jeans, eternamente sulla strada, e paga il prezzo di essere l'icona numero uno della beat generation, movimento culturale che è già un'icona di suo. Ci sta che non sappia che giorno sia oggi anzi, ci piace di più, questa sua vaghezza contribuisce al mito dell'eroe stropicciato che è e sarà. Il destino di un autore che viene letto solo nell'adolescenza per rimanere così, a galleggiare, non sedimentando mai in profondità, un oggetto di culto come la Vespa o Marylin con la gonna che svolazza. Buddista, fricchettone e fichissimo ante litteram, oggi sarebbe un influencer e non da pochi followers. Scrisse il suo capolavoro, quel Sulla strada ormai proverbiale, ma si dedicò anche agli haiku. Nei primi anni cinquanta, attratto da meditazione e buddismo, accede al Giappone attraverso la lettura del saggio di D.T. Suzuki, il prezioso volume uscito nel 1927. Il fascino del ritmo sincopato e jazzistico di un componimento così sintetico non poteva non piacere al nostro mito, a questo Jackson Pollock della scrittura. Scriveva a Lawrence Ferlinghetti: "Vorrei raccogliere tutti gli haiku dei miei taccuini e farne un libro...". Ne ha scritti migliaia. Leggendoli, meglio se in controluce con quelli giapponesi, la sorpresa e il godimento diventano profondi. Troviamo rigore e conoscenza, studio e passione. E anche una totale e febbrile dipendenza dal comporne visto che girava col taccuino in tasca proprio come facevano i maestri zen. I suoi haiku giocano a rispecchiarsi nella trasparenza liquida dei classici, come in questo, in cui è evidente il rimando alla rana di Bashō:

Un vecchio laghetto, sì
Nell'acqua si è tuffata a capofitto
Una rana

O questo di Issa (1763-1827) :
Cade la rugiada
i passeri cantano
la vita futura

a cui Kerouac sembra rispondere, acidamente, così:
Piccoli passerotti grigi
sul tetto
sparerò al mio redattore

Con gli haiku di Kerouac noi "vediamo" l'America che immaginiamo.
Cactus, mosche, sedie a dondolo, birre, serpenti eccetera eccetera compongono microcosmi americani a tre versi, la voce di Kerouac in sottofondo come un'armonica a bocca. 

Notte di primavera -
il vicino picchia col martello
nella nuova-vecchia casa
...
Lottano contro il lucchetto,
le porte della rimessa
A mezzogiorno
...
Arrivano da ovest
coprono la luna
Le nubi - non un suono
... 
Gioco a basket
- la vicina di casa
Continua a guardarmi 
... 
La sedia bianca tende
le braccia verso
i Cieli - soffioni

Pops dopo pops - proprio così Kerouac chiama i suoi haiku contraendo la parola poems e tirandone fuori una ancora più "tonda" nel suono - si intuisce come il suo modo di vedere la realtà, anche grazie alla lettura dei grandi maestri zen, sia un modo tutto nuovo.
E On the road, in cammino, come un anonimo monaco zen.



(Sulla strada ieri)


giovedì 20 luglio 2017

In viaggio


Antico stagno!
Salta dentro una rana -
Il suono dell'acqua
(Bashō 1644-1694)

Umiltà, povertà e misticismo caratterizzarono la biografia di Matsuo Bashō, il Dante dei giapponesi, considerato il padre della poesia breve di tre versi, che Shiki duecento anni dopo denominerà "haiku", e venerato come un santo.

"Viaggiatore" voglio essere chiamato
ora che cade
il primo scroscio della stagione.
(Bashō 1644-1694)

Bashō fu un uomo in cammino che intendeva il movimento come fonte di conoscenza e di approfondimento. Matsuo Munefusa, figlio di samurai, da ragazzo pensa di intraprendere la strada già segnata ovvero quella della carriera militare. Ma cambia direzione e fonda una scuola di poesia che gli procurerà fama e agio economico.
Decide ancora di cambiare strada e si stabilisce in un eremo nel cui minuscolo giardino un suo discepolo pianta un banano che crescerà rigoglioso.  Tutti individueranno la sua casa come la Bashō-an, la casa del banano, e Munefusa decide così di chiamarsi Bashō, banano.
Cambia strada di nuovo: indossa tabi e kasa e incomincia a viaggiare per il Giappone. 
Matsuo Bashō, il monaco veloce e sempre in giro e che  i suoi discepoli, affascinati dalla sua agilità, immaginavano essere stato un ninja - che decide di identificarsi con una creatura stabile e radicata al suolo come un albero.

Un mangiatore di cachi
che amava gli haiku
così bisognerà ricordarsi di me
(Shiki 1867-1902)


Si fa chiamare Shiki, cioè "cuculo", l’uccello che secondo la tradizione giapponese canta finché muore. A undici anni scrive il suo primo poema e a quattordici anni fonda un gruppo poetico.
Si diploma, lascia gli studi universitari e rinuncia alla borsa di studio. Si consacra agli haiku, compone varie raccolte, fonderà la rivista letteraria “Il cuculo”.
Nel 1894, già malato, è corrispondente per il suo giornale della guerra cino-giapponese.
Al contrario di  Matsuo Bashō, suo amatissimo maestro e grande camminatore e  di Santoka, Shiki  potrà camminare poco.    
La sua breve esistenza, morì a trentacinqueanni,  può misurarsi in pochi tatami, quelli della stanza dove era costretto a letto.
E in quello spazio angusto, povero e solitario, Shiki il samurai compone in forma di haiku la sua lotta contro il male e la sua voglia di vivere, il suo addio alla vita e la sua rabbia.

Il vecchio stagno -
la rana salta
tonfo nell'acqua
(Bashō 1644-1694)


Gli haiku di Jack Kerouac giocano a rispecchiarsi nella trasparenza liquida dei classici, come in questo, in cui è evidente il rimando alla rana del vecchio Bashō.

Un vecchio laghetto, sì
Nell'acqua si è tuffata a capofitto
Una rana

Jack Kerouac, attratto da meditazione e buddismo, accede al Giappone attraverso la lettura del saggio di D.T. Suzuki, volume uscito nel 1927 (che Adelphi ha ripubblicato). 
Il fascino del ritmo sincopato e jazzistico di un componimento così sintetico non poteva non piacere a questo Jackson Pollock della scrittura. Scriveva al suo amico Lawrence Ferlinghetti: "Vorrei raccogliere tutti gli haiku dei miei taccuini e farne un libro...". Ne ha scritti migliaia.
Solo leggendoli, meglio se in controluce con quelli giapponesi, la sorpresa, il piacere e il godimento diventano profondi.
Troviamo rigore e conoscenza, studio e passione. E anche la totale e febbrile dipendenza dal comporne visto che girava con un taccuino in tasca proprio come facevano i maestri zen.
Torniamo a viaggiare da fermi, un po' come fu costretto a fare Shiki nella sua cameretta, con gli haiku composti da Andrea Zanzotto tra la primavera e l'estate del 1984 e, proprio come il monaco zen Shiki, il poeta tra i più importanti del nostro novecento componeva haiku come terapia di sopravvivenza. 
Li definiva "pseudo-haiku" proprio per la libertà stilistica che si accordava rispetto al canone giapponese e utilizzava l'inglese che, probabilmente, trovava più lancinante. 
Si strappava alla depressione anche così.

Lost-shy petals of panels,
clipped minitalks, past thoughts—
little bitter teeth biking   

Timidi-perduti petali sui vetri
mini-discorsi spezzettati, pensieri passati —
mordenti asprigni dentini

E dopo questi sorprendenti "asprigni dentini" direi che è il caso di chiudere qui. 
E di pensarci un po' su, magari facendosi un giro. 
Anche sotto casa. 

(haiku-finestra)








martedì 13 gennaio 2015

Leggendo haiku

Aspettando il prossimo tuono,
incontro per caso
bellissimi occhi
(Saitō Sanki 1900-1962)



In questi giorni di tuoni e tempesta ho scelto di leggere "Il grande libro degli haiku", appena uscito per Elliot, riedizione di quello Castelvecchi che nel 2005 aveva una copertina blu. Il volume, dalla stazza non esattamente tascabile, è un'antologia che mi sento di consigliare a chi, magari anche attraverso il mio blog, inizia ad apprezzare il grande mondo degli haiku.
L'introduzione, semplice e precisa, è della curatrice Irene Starace e offre un excursus veloce nella letteratura giapponese. Varia la scelta dei poeti e dei componimenti, le note sono puntuali e facilmente raggiungibili dal lettore. Per ogni haiku è dedicata un'intera pagina, scelta che all'inizio mi sembrava, lo ammetto, un po' troppo stilosa, ma che invece rende ben visibile quel senso di sospensione intrinseco nel componimento stesso. In effetti, solo in uno spazio più ampio può trovare respiro la grazia grafica degli ideogrammi e la loro trascrizione anche in italiano lascia intuire quel ritmo interno al verso, inafferrabile se non si conosce il giapponese. 






Insomma, un bel libro da consultare dove, insieme ai più famosi Bashō e Issa, trovano posto vari poeti contemporanei poco conosciuti esponenti di un'arte antica sempre capace - come già diceva Roland Barthes in un suo saggio meraviglioso - di rendere, proprio come una fotografia, la realtà a cui cosmicamente si riferiscono.
Alla domanda se possano esistere ancora poeti haijin, come lo furono Issa o Bashō, ai nostri giorni, la risposta è immediata e positiva se si leggono Kaneko Tōta o Kato Shusōn.
Gli haiku hanno irretito Jack Kerouac e Andrea Zanzotto, ne parlerò in un prossimo post, e continuano ad affascinare migliaia di persone in tutto il mondo che si cimentano nella loro struttura e costruzione, ne traggono ispirazione per musica, fotografia, video arte.

Di questi cristalli perfetti di tre versi, io catturo, col mio specchietto, uno dei tanti riflessi che mi colpiscono e lo dirigo sui vostri "bellissimi occhi" e voi, a vostra volta, lo riflettete in giro o di nuovo verso di me. 
Ecco cosa significa per me l'esperienza del Dailyhaiku.







     

 

martedì 17 febbraio 2015

Haiku

Ardui cammini del verde
sul filo di infinite inesistenze -
un ultimo raggio li perseguita
(Andrea Zanzotto 1921-2011)




Jack Kerouac li chiamava pops (leggi qui), Andrea Zanzotto pseudo-haiku.
I grandi - pochi - che si sono cimentati con gli haiku, ne hanno fatto qualcosa di nuovo. Di unico e irripetibile.
Sull'apparente semplicità di un haiku mi sono soffermata più diffusamente sulla rivista on line L'Undici. Ecco un "ritaglio" di quanto ho scritto :

<<Alcuni credono di poter comporre haiku perché conoscono le regole. 
Alcuni esclamano la frase classica – come davanti al quadro con i tagli di Fontana  - “Ma che ci vuole a farlo?!”.

Ecco, direi a entrambi, non ce la puoi fare. Mi dispiace, sai. Ma non ce la farai mai. E’ come fare yoga in una palestra pensando di stare sul Gange, meditazione con le amiche prima di andare in pizzeria o tagliare una tela bianca dopo settanta anni da Lucio Fontana. 

Nello spazio così breve di tre versi di 5-7-5 sillabe, c’è un mondo. Un preciso riferimento stagionale, alla natura, un simbolo, un criptico riferimento a un maestro, a un lutto, a una novità. Purtroppo la grazia degli ideogrammi e il ritmo del verso si perdono se non si conosce il giapponese ma, nell’angustia della sintesi obbligata, il respiro rimane cosmico ed esistenziale.
Ma non è la distanza culturale il vero problema. Paradossalmente è nella loro prossimità l’effettiva irraggiungibilità. È la profonda letterarietà, che ci riguarda così da vicino, a colpirci. Ecco perché gli haiku possono adattarsi e commentare prodigiosamente anche la notizia del giorno – che sia di politica interna o sull’ultima scoperta scientifica 
E aprono mondi mentali, letterari e artistici. Accendono le sinapsi, cliccano sui link che abbiamo nella testa, ci spingono alla ricerca. 
E’ letteratura, ci riguarda! E, come capita quando hai a che fare con i grandi, devi rileggere un paio di volte, prima di capire bene. Anche se qui hai solo tre righe apparentemente semplicissime, devi rileggerle per capirle. 
Leggere per capire. >>



("infinite inesistenze"?)



Il resto? Leggilo su L'Undici cliccando qui.