sabato 31 dicembre 2022

2023


Capodanno:
nel cielo sereno si parlano
i passeri
(Hattori Ransetsu 1654-1707)

Un anno nuovo come fosse un cielo sereno e noi sotto la sua volta a goderne.
Il mio augurio? Che le cicatrici del vecchio si rimarginino in fretta.





sabato 24 dicembre 2022

Buon Natale


Ciliegi di monte
contro i picchi nevosi –
Non s’ode una voce
(Mizuhara Shūōshi 1892-1981) 


🌟Non sono fotogenica e non mi piaccio mai o quasi nelle foto che mi fanno. I selfies? Peggio mi sento! Ma questa sì, la amo per quello che non mostra (una città , una serata, un libro, una cena, l’ottima - e dico “ottima” - compagnia) un benessere che nelle mie pupille felicione forse riuscite a intravedere. Porgo a tutti i miei auguri di cuore, a chi mi ascolta dentro la radio e con me se la ridacchia e si emoziona, a chi mi legge… A chi mi segue dal mio primo dailyhaiku!!!
Con tutto il mio affetto vi auguro cose belle, davvero. Piccole cose belle per ognuno di voi… Buone Feste Susanna🌟

domenica 18 dicembre 2022

Mostafa, anche la neve


Anche la neve
può non essere buona neve.
Fumo dalle fattorie.
(Santōka 1882-1940)


🌟Carola di Natale al contrario🌟

C’era una volta un ragazzo, si chiamava Mostafa Abdelaziz Abouelela, aveva diciannove anni e veniva dall’Egitto. La sua vita è stata un soffio, l’hanno trovato sotto un cavalcavia di Bolzano morto di freddo tra i cartoni un paio di giorni fa. Se si allargasse il campo con uno zoom, a poca distanza da quell’ultimo ricovero, potremmo inquadrare le nostre lucine alle finestre, le case in miniatura col fiocchetto alternate alle palle con la neve sulle bancarelle, le renne che tirano slitte di porporina con babbo natale che ci saluta. E farci un bel selfie.



domenica 4 dicembre 2022


Alla farfalla propongo
di essere la mia
compagna di viaggio
(Shiki 1867-1902)

Non credo alle “presenze”, ai “segnali”, tantomeno al caro defunto che protegge da “lassù”. Immagino piuttosto un olimpo portatile, popolato da chi ci ha amato e a cui poter tornare nelle nostre giornate. 
Un ricordo che qualcuno di inaspettato regala, un mozzicone di sigaro sul marciapiede, una vecchia canzone le mie preghiere laiche.



lunedì 21 novembre 2022


Spunta dalla radio
una canzone di quando
stavo diventando grande
(Santōka 1882-1940)

“L’agendona era proprietà esclusiva del redattore più anziano. Frutto di anni di lavoro, di poche gratificazioni e forse anche di qualche sevizia, costituiva un bene prezioso come una dote. Veniva consultata con aria da iniziati e a volte trafugata per fotocopiarla di nascosto. In quel mondo cartaceo fatto di schede e diricerche in biblioteca, lavorai come redattrice negli ultimi respiri del 3131, durante la stagione precedente alla chiusura definitiva avvenuta nel 1995, quindi in un periodo mesto e faticoso (quanto al clima surreale, niente di peggio di una trasmissione in chiusura). Gianni Bisiach, anima di Radio anch’io, dall’altra parte del corridoio sembrava sempre un cuor contento e, quando andò in pensione, portò via dai corridoi di viale Mazzini quei suoi modi pratici da americano di Gorizia. Univa alla laurea in medicina la passione per quel tipo di giornalismo investigativo e confidenziale insieme, un po’ da film in bianco e nero, da spy story. Lo ricordo sempre trafelato, con un’aria da cane da caccia”.

Per ricordare Gianni Bisiach ho ripreso quel mio diario di lavoro che fu il libro “Ascoltatori” edito per Add (libro più sfortunato tra quelli che ho scritto, invisibile davvero, e non sapete quanto mi sia dispiaciuto), alla pagina dove racconto proprio quel corridoio dove ci siamo incrociati per non so quanti anni.

Bisiach era tutt’uno col suo lavoro da non aver certo creato una “scuola”, era un direttore d’orchestra, un primario col codazzo. Ma traduceva in sorrisi e slanci di generosità questo suo giocare da solo, e il lavoro lo imparavi osservando quella sua passione. Era la radio che non c’è più (era “lui” la fonte, non certo internet che ancora non esisteva), era la voce che adesso si cercherà nell’archivio audio per ritrovarla come ricordiamo, tonda, sonora, con quella lieve sporcatura friulana nelle vocali, dall’inglese perfetto. Senza narcisismi, conosceva solo la vanità di una camicia bianca fresca di bucato arrotolata sulle maniche. Di lui non sapevamo nulla. Se fosse sposato, separato, mistero. Interrogavo la sua redattrice numero uno, Cecilia, senza ottenere una virgola. Forse esisteva una signora che ne seguiva la vita, privata e professionale, silenziosamente. Nulla di più. 

Brindo alla sua memoria come avrebbe voluto, da Vanni, il caffè a pochi passi da via Asiago, con prosecco e tartine. Un cin cin tra una cosa e l’altra da fare, un momento collettivo che durava il giusto, a cui eri invitato personalmente e a cui teneva moltissimo, e a cui non potevi mancare. Poi bisognava tornare su, al lavoro, al microfono che lo aspettava. Bisognava andare. 

Ciao caro Gianni. 



lunedì 7 novembre 2022

Vitaliano Trevisan


Il mio naso che cola
solo sulla punta
l'ultima luce della sera
(Akutagawa 1892-1927)

Preciso come una lama. I fuori e dentro la pagina - la tua voce per chi legge - e gli anglismi, e le abbreviazioni da sms nella frase. E la trascrizione del pidgin come fosse vita che irrompe, una lingua-strumento. E il gergo tecnico, le ambientazioni che si squadernano come cartografie di quello che siamo, con le nostre certezze, i nostri perbenismi, le ipocrisie.
E non è ancora nulla di quello che penso di questo bellissimo libro. 
Una volta sono riuscita a dirgli che Works l’avrei fatto leggere a scuola, e un’altra a fargliene leggere dei brani a una festa di Radio3 dove arrivò con i suoi occhi di lupo. Come lettori ci restano le sue pagine, come esseri umani il lutto.

Tks.



mercoledì 2 novembre 2022


Foglia che cade -
l’istante che tocca il suolo
s’allenta il tempo
(Katō Shūsōn 1995-1993)

Ora sono a casa, col gesso e una placca che salda i pezzetti di radio tutti insieme e, tra antidolorifico e relax obbligato, la mia vita procede. A proposito. Torniamo a quella sera, alla vita di quella sera.
Ero a duecentometri da casa, bel bella coi miei “grandi” progetti sotto il casco (la cena, che film vedere domenica, cose così) quando… già lo sapete. Ma proviamo ad andare avanti con le immagini, allargando, zoomando, vediamo chi in quel momento era lì con me.
Ecco i due ragazzi che chiamano i soccorsi e i vigili, lei premurosa, lui con una collana di perline di legno al collo imbufalito col guidatore del macchinone che si è appena dileguato, ecco la passante con la maglia viola che scuote la testa, pure col rosso è passato quello, ecco gli occhi di Mauro con dentro tutto. Ecco l’autista dell’Atac che prova anche lui a tranquillizzarmi (io che sto pensando dove avrà mai parcheggiato il suo autobus con tutta la gente dentro, mica l’avevo capito di stare in mezzo al mio fermo immagine!) e che mi dice che tutto è successo davanti a lui, che meno male, che poteva andarmi peggio, che il mezzo è provvisto di telecamera, che non è giusto che succedano queste cose. Ha la barba. Mentre parla penso che gentile, anche lui come i ragazzi che persone gentili, tutto questo casino e io in mezzo, a terra, senza potermi muovere o peggio levare il casco, meglio che stia ferma signora. Ferma. Fermato tutto nella mia testa.
Quanto sia durato “quel momento”, e se il filo a cui sono, siamo, appesi, lo si veda nel mio filmino mentale, non mi è chiaro. Ma una cosa sì, è nitidissima. Quell’angolo di città era un cuore pulsante. Il tizio? Boh.

Istante



martedì 1 novembre 2022

Accadimento


Fiori di pruno
si raccoglie il fresco
negli angoli della stanza
(Akutagawa 1892-1927)


Un tizio sul suv passa col rosso, mi prende in pieno mentre superavo l’incrocio in motorino. 
E scappa via, lasciandomi lì, per terra. Scappa via.
Poi persone intorno, gli occhi del mio compagno. Poi ospedale, frattura del radio (sì, guarda caso mi ha frantumato il “radio”) e operazione. 
E poi la cena che ho fotografato perché mai stati così buoni quei fagiolini, così “regalati” dalla vita. Manco Cracco li fa così.

Fiori di pruno
                                                                   

mercoledì 19 ottobre 2022

Rose come capelli


Taglio le rose
mormorando qualcosa
a quelle rose
(Momoko Kuroda 1938)

Rose come capelli.
Non è nulla un haiku per quello che sta succedendo, lo so bene, vale nulla. Ma una rivoluzione come quella che le donne iraniane stanno attuando, unica e gigantesca, le foto delle ciocche tagliate e dei capelli liberi, gli occhi di Asra Panahi che si rifiuta di cantare un inno e muore per questo, ci obbligano a fermarci. 
Rose, rose per loro, e per gli uomini loro compagni che sostengono madri, figlie, sorelle, mogli. 





giovedì 23 giugno 2022

A Patrizia Cavalli

Vecchio post. In memoria di Patrizia Cavalli mancata il 21 giugno appena passato, in un primo giorno d’estate. Con lei va via un pezzo di mondo che mi piace, che cerco tra i sampietrini o sopra un ponte, si azzitta la voce con la pigra cadenza romana e con essa il ritmo nei versi che solo lei poteva restituire così. Se ne va Patrizia Cavalli, sguardo freccia, la seduttiva e vanitosa, intelligente e bizzarra, intransigente solo nel verso e nel rispecchiarsi dentro quello che faceva e che così tanto le assomigliava, invariabile nel tempo eppure cangiante come un cielo romano, come la vita meravigliosa che cantava.

Ed ecco quello che scrissi qui, il 9 giugno del 2019, in occasione dell’uscita di un suo libro di prosa.


Quello che è mio potrebbe essere vostro?
No, se fosse vostro non sarebbe mio.
Ma il mio cos'è? Dov'è?
Non sono certo io, non lo ritrovo in me.
Di me mi sento infatti mandataria,
ma in nessun modo, mai, la proprietaria.
(Patrizia Cavalli) 

"Ma díglielo, no? Dille quanto ti piace!"
Ci ho provato. Anzi l'ho anche fatto, negli anni, nelle occasioni dei festival, ma non mi importa. A casa sua, quando l'ho incontrata la prima volta, una quindicina di anni fa, no, lì non dissi nulla preferendo un sorriso vuoto e gentile, non avevo ancora centrato il suo sguardo poetico, e mi aggiravo in una casa piena di anfratti, di camere, di copriletti colorati e libri. Col registratore e il microfono, la seguivo nei meandri allegri di quella casa romana che se lo dici, abito a Campo de' Fiori, sembra impossibile; la seguivo tipo Fido mentre mi mostrava alcune letture che la impegnavano in quel momento e, mentre parlava allegramente, col suo sorriso, e gli occhi rapinosi, io sorridevo e registravo le sue poesie. Da quel pomeriggio, infisso nella mia testa come una pietra dentro il castone, della sua scrittura, di quel suo disincanto e lo sprazzo di dolcezza improvviso che balena nel verso, non ne ho fatto più a meno. L'ho sempre più capito, aspettandolo. Aspettando quella chiusura ribatatrice di ogni sua poesia, quel kireji della Cavalli e non di uno haiku, fatto di un lampo di gioia, di ironia, di depressione, di amore solo suo. È diventata la compagna di passeggiate romane, quando in motorino attraverso un ponte, se vago nella città barocca dai palazzi color pastello, celestini, arancio e burro penso a quei copriletti. Se scopro un capitello in un angolo, con una vecchia mendicante seduta sopra o incerottato dalle strisce di plastica dei lavori in corso, mi sembra che geolocalizzi un suo verso. E provo a fare mio quel senso di malinconica immanenza e di vita da mangiare. "Con passi giapponesi" è la raccolta di racconti appena uscita, dove, sia ben chiaro, il Giappone non c'entra nulla. Non so cosa dire su questo libro che mi ha colpito tanto (allora cosa scrivi? Scrivo questo: "non so cosa dire"); che è come se qualcuno da lì dentro mi parlasse, anzi mi guardasse, anzi, ci guardiamo riconoscendoci. 

Quello che è mio potrebbe essere vostro?
No, se fosse vostro non sarebbe mio.
Ma il mio cos'è? Dov'è?

E una volta finito mi è gravata addosso quella sensazione di sbigottimento, misto a una ansia lieve, succede quando un autore sembra parlare a te, proprio a te, quando capisci che quello che è suo potrebbe essere tuo. E forse lo è anche un pochino. 



giovedì 12 maggio 2022

La dolcezza di un haiku

Dora quattrozampe

quando dorme galoppa

sognando di volare



Cos’è questo libro, un diario, un’antologia di incontri, viaggi fatti e libri letti oppure una dichiarazione damore lunga duecento pagine, cosa è mai? E chi è quella donna disegnata sulla copertina, che fluttua con gli occhi chiusi sulla campitura verde,concentrata in una mossa di tai chi - antica arte del combattimento portatrice di forza e remissione, di bellezza e concentrazione - e soprattutto, vuole forse dirci qualcosa

Mentre la lieve figurina immaginata dall’artista Cathy Josefowitz continua a volteggiare intenta nei suoi movimenti, io procedo nella lettura di Una vita dolce, capitolo dopo capitolo

Beppe Sebaste, scrittore divagante, scrive da sempre libri fatti incontri e di altri libri, immaginate quindi quest’ultimo indefinibile romanzo come fosse un faldone di appunti che il suo autore sta riordinandoSi tratta di notazioni raccolte nell’arco di un’esistenza, sono i nomi di vecchi amici, le canzoni che tornano su da recessi lontani, le case, le rive del Gange del mare di OstiaE scome per l’autore ognuno di noi è fatto dei luoghi che abitadelle persone incontrate e di tutte, tutte, tutte le parole dette e letteallora questo libro ci sta parlando e quel verde della copertina, un nulla liquido e colorato, inizia a riguardarci

Mentre Sebaste continua nelle sue divagazioni riposizionando nella memoria eventi e date e accompagnandoci alla scoperta di un pittore o di un Oriente magico, questopresente viene ricomposto per il lettore da S., osservatrice silenziosa e grandeprotagonista di tutta la storia

S. che amava ballare, ogni tanto lo fanno ancorainsieme, sorridere. Come il compagno ama la letteratura e la poesia - per anni ha lavorato per le pagine culturali di un quotidiano  anche gli haikui brevissimi componimenti giapponesi di tre versi dove poche parole precise, quelletrovano il loro posto nel nulla del foglio bianco.  

Una delle tecniche che applica per resistere all’Alzheimer che prematuramente l’ha aggredita è appunto comporne. Sebaste veglia su questi versi, li accudisce inventando risposte in versi con un amorevole gioco di rimandi. 

 

Dora quattrozampe

quando dorme galoppa

sognando di volare

 

Guardare le parole che se ne vanno, acchiapparle e fissarle sul quaderno. Tre movimenti come tre sono i versi di uno haiku giapponese.

“E’ bello, come sempre le sue poesie. Le scrive da quando non scrive più. Lentamente, con fatica da orafo, o da antico orologiaio. Una sola parola le richiede molto impegno. E ancora una volta mi ci specchio, con un sorriso.

Se le arti marziali insegnano a cambiare di posto continuamente, a usare movimenti che contengano vuoto e pieno adattandosi a quelli altrui, a seguire la morbidezza di un gesto, la sua rotondità, la minuscola gabbia formale di uno haiku costringe le parole in una forma nuova, proprio quella che cercavamo. E le protegge dal vuoto di senso, illuminando ogni loro più recondito significato.  

Eccoci. Siamo dentro al dolore, ma in queste pagine c’è spazio solo per la luce, la gioia e la morbidezza. 

Torno a quel niente verde della copertina, dentro quell’altrove, quel non essere quiche ci sfida, e ci accoglie, con la medesima forza. Bisognerebbe saper rispondere a ciò che la vita ci pone davanti, provando a sorridere come Sebaste quando si specchia in S. che, a sua volta, sorride. Non è facile.

Qualche anno fa li ho visti, l’occasione era un incontro poetico organizzato all’Orto Botanico di Roma, avrei ascoltato qualcosa di bello magari sotto quella minuscola e maestosa foresta di bambù che verdeggia nel centro, quindi ho preso il motorino ho raggiunto quel manipolo di poeti a raccolta, il sole fresco di una primavera qualsiasifiltrava tra noi. S.sotto lo sguardo trepidante di Beppe, lesse qualcuno dei suoi haiku con la forza dolce e vigorosa dei germogli

Quel momento lontano, sperso nella mia memoria, adesso lmetto a fuoco capendolo meglio. Ha finalmente trovato il suo posto pieno di luce dentro di me

E’ un libro saggio, sono rari i libri così, sono regali. L’esercizio che suggerisceilluminando una coniugalità fuori dagli schemi, dove la dolcezza non è zuccherosa le amarezze non appaiono come sterili rivendicazioniè quello di provare a rimettere a posto le cose.

“Ho paura, per lei e per me. Che la notte cancelli o nasconda anche solo in parte la luce tenera e forte che ha fatto innamorare di S. chiunque l’abbia incontrata nel corso della sua malattia. Riusciremo a tenerla accesa, a colorarla? Se lei scompare, sono io che non vedo. Se divento invisibile, sono ancora io a essere cieco. Se lei diventa cieca, sono sempre io a non vedere”

Ed è così che in questo romanzo dolce e saggio, metafisica, cosmogonia, condizione umana diventano cose a portata di mano. O meglio, di carezza. 




  

martedì 3 maggio 2022

Pace, glicini e rottami


Stanchezza -
entrando nella locanda
i glicini

(Bashō 1684-1694)


Pace. La sensazione di benessere di Bashō dopo tanto camminare che sia anche la nostra, dopo troppo tempo e sangue solo quiete, ombra, frescura. Ah. Dimenticavo, quello che vedo nell’haiku è un locale dove nessuno usa, chiede o offre armi.

Una ragazza che si chiama Greta Thunberg ha chiamato a raccolta milioni di persone in nome dell’ecologia. Noi occidentali, vecchi rottami del novecento, continuiamo a dividerci in nome della pace. Sarebbe stata bellissima una manifestazione globale, guidata dai capi di stato, saremmo tornati ragazzi, avremmo toccato il futuro, sentito il profumo dei glicini. 



venerdì 29 aprile 2022

Ivano Ferrari

E’ fuggito un toro nero
erra sul cavalcavia
impaurendo il traffico,
lo rincorriamo
impugnando coltelli
bastoni elettrici e birre
corre si ferma torna
arrivano i carabinieri coi mitra,
ora è steso su un velo d’erba
e sussurra qualcosa alle mosche.
(Ivano Ferrari)

Mi dispiace molto di Ivano Ferrari, il poeta del dolore e della morte.
Sono stati la sua poetica, dolore e morte, la sua vita. 
La vita. Con Ferrari la poesia partecipa del suo mistero e della sua oscenità, e leggerlo una volta, anche una sola, significa non dimenticarlo più. 
Lo ricordo come dentro una foto, magari di quelle scattate da Giovanni Giovannetti, a Mantova nel casino di un festival. Sotto un sole bollente, in mezzo agli altri ma nascosto, in secondo piano, mi sorrideva. Oggi lo piango. Ma pensare che lui la strada la conosceva bene è la consolazione triste offerta al lettore dalla sua scrittura. Lo sentivo vicino, Ivano Ferrari, senza frequentarlo lo “sentivo” .
RIP poeta tenero e spietato, laconico e sarcastico. 

                                                        E il sole non fa più rumore.